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le donne arabe, come le dame dei tornei, salutavano il drappello con un gridìo loro proprio, che è una ripetizione rapidissima del monosillabo: , simile a un trillo acuto di gioia infantile.

Di là passai al giuoco della palla. Erano una quindicina d’arabi, ragazzi, uomini maturi e vecchi colla barba bianca, alcuni col fucile a tracolla, altri colla sciabola, e giocavano con una palla di cuoio grossa come un arancio. Uno la pigliava, la lasciava cadere e la ributtava in alto con un colpo del piede; tutti gli altri correvano per coglierla in aria; chi la coglieva, rifaceva l’atto del primo; e così il gruppo dei giocatori, seguitando la palla, s’allontanava man mano, e poi, di comune accordo, tornavano tutti insieme nel luogo di dov’eran partiti. Ma il curioso di questo gioco stava nei movimenti delle persone. Erano passi di ballo, gesti misurati, atteggiamenti di mimi, un fare quasi cerimonioso, una certa apparenza di contraddanza, un non so che di severo e di molle insieme, ed una corrispondenza di mosse e di giri, in quell’andare e venire, di cui non mi riuscì di scoprire la legge. Correvano e saltellavano tutti insieme in un piccolo spazio, si serravano, si rimescolavano, e non seguiva mai un urto, nè il più leggero scompiglio. La palla s’alzava, spariva, balzava in mezzo a quelle gambe e al disopra di quelle