i panni smessi di suo fratello maggiore, e gli taglian le cravatte nei
vestiti vecchi di sua sorella, e non si fidano ancora di lasciargli in
mano l’orologio. Vorrebbe esser preso per un ometto e contar per
qualcosa; se apre la bocca in mezzo alla gente, o dice una freddura, che
cade inosservata, o dice uno sproposito, e gli dan sulla voce. Vorrebbe
essere garbato e piacevole; e se capita in un salotto non sa come
rigirarsi, urta in una seggiola, mette i piedi sullo strascico di una
signora, e pesta un callo al padrone di casa. Vorrebbe esprimere quel
che gli bolle dentro, aprire il suo cuore, sfogarsi; e scrive dei versi
che fanno ridere il maestro, e il babbo glieli strappa di mano, e gli
mette sotto il naso un trattato d’aritmetica. Vorrebbe agitarsi,
svagarsi, girare, veder cose nuove; e deve tornare a casa alle otto a
scartabellare il dizionario latino, in un cantuccio della sua stanza,
solo, mentre sente il fruscio dei vestiti delle sue sorelle, che si
preparano pel teatro o pel ballo. Sconfortato, umiliato, ora s’insinua
in mezzo alla gente per implorare uno sguardo, un sorriso; ora si chiude
in sè stesso, indispettito e selvatico, e come stanco degli uomini e
della vita. E allora seguono le lunghe ore di solitudine passate alla
finestra, di notte; o in campagna, a guardare tra i fili dell’erba; e la
sua fantasia vivida e irrequieta si slancia avidamente nell’avvenire, in
un avvenire sconfinato ed arcano, pieno di grandi disegni e di grandi
speranze. Allora egli si finge una vita a modo suo; casi mirabili e
strani, lotte, pericoli, trionfi, viaggi, aurore di cieli ignoti, e
vasti giardini taciti, popolati di fantasime care; e lì ricordi
indistinti di profili verginali, cento volte raccolti e ricomposti e
vagheggiati con trepido amore, e convegni solitari, e parole ardenti, e
dolcezze che soverchiano le forze dell’anima. Ma poi quella splendida
visione lo rattrista o lo stanca, ed egli riabbraccia con impeto la
vita; si getta di nuovo in mezzo allo strepito dei sollazzi infantili; se