Pagina:De Amicis - Spagna, Barbera, Firenze, 1873.djvu/182

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falange, nessuno può uscire, si stenta a muovere le braccia. E non è un brulichío, uno strepito come negli altri teatri; è diverso; è un'agitazione, una vita affatto propria del Circo; tutti gridano, si chiamano, si salutano, con un'allegrezza frenetica; i bambini e le donne strillano, gli uomini più gravi folleggiano come giovinetti; i giovani, a gruppi di venti, di trenta insieme, vociando in cadenza, e battendo le canne sulle gradinate, annunziano al rappresentante del Municipio che è l'ora; nei palchi è un ribollimento da piccionaja di teatro diurno; al gridío assordante della folla si mescono gli urli d'un centinaio di rivenditori che gettano aranci da tutte le parti; suona la banda, i tori muggiscono, rumoreggia la folla accalcata di fuori; è uno spettacolo che dà le vertigini; prima che la lotta cominci, si è già stanchi, ebbri, smemorati.

All'improvviso s'alza un grido: — El Rey! — Il Re è arrivato; è arrivato in una carrozza tirata da quattro cavalli bianchi, montati da servitori vestiti del pittoresco costume andaluso; le vetriere che chiudono il palco reale s'aprono; il Re entra con un folto corteo di ministri, di generali, di maggiordomi. La Regina non c'è; si prevedeva: si sa che ha orrore di codesto spettacolo; oh! ma il Re non ci poteva mancare, c'è sempre venuto; si dice che ne va matto. È l'ora, si comincia. Mi ricorderò per tutta la vita del freddo che sentii nelle vene in quel punto.

Squilla la tromba: quattro guardie del Circo, a cavallo, con cappello e pennacchio alla Enrico IV, mantellina nera, giustacore, stivaloni, spada, entrano