Pagina:De Amicis - Spagna, Barbera, Firenze, 1873.djvu/328

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322 cordova.


Mormorando questi versi, riuscii nella via Juan de Mena, l'Ennio spagnuolo, come lo chiamano i suoi concittadini, autore d'un poema fantasmagorico, intitolato: Il labirinto, imitazione della Divina Commedia, di gran fama ai suoi tempi; e non privo, in vero, di qualche pagina di poesia ispirata e profonda; ma, nell'assieme, gonfio di pedantesco misticismo, e freddo. Giovanni II, re di Castiglia, andava pazzo di questo Labirinto, lo teneva accanto al messale nel suo gabinetto, lo portava seco alla caccia; ma, vedete capriccio di Re! il poema non aveva che trecento strofe, e a Giovanni II parevan poche, e sapete per qual ragione? Per la ragione che l'anno è di trecento sessantacinque giorni, e a lui pareva che quanti sono i giorni dell'anno tante dovessero essere le strofe del poema; e pregò il poeta di comporne altre sessantacinque, e il poeta lo obbedì; lietissimo, l'adulatore! di vedersi offerto un pretesto per adulare ancora; benchè l'avesse già tanto adulato, fino al segno di pregarlo che gli correggesse i suoi versi! Dalla via Juan de Mena, passai nella via Gongora, il Marini della Spagna, non meno grande d'ingegno, ma forse anche più corruttore della sua letteratura che non sia stato della nostra il Marini, poichè guastò, stroppiò, imbastardì in mille modi anche la lingua; onde Lopez de Vega argutamente fa chiedere da un poeta gongorista al suo ascoltatore: — Mi capisci? — e questi risponde: — Sì! — e il poeta di rimando: — Menti! perchè non mi capisco neanch'io. — Non però scevro affatto di