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324 cordova.


cato, al cultivo de las Musas, franchi, cortesi, vivacissimi, con una farraggine di versi nella testa, e infarinati di letteratura italiana; cosicchè, figuratevi, dall'imbrunire a mezzanotte, per quelle misteriose stradine che m'avevan fatto girar la testa la sera prima, fu un continuo clamoroso scambiarsi di sonetti, d'inni e di ballate delle due lingue, dal Petrarca al Prati, dal Cervantes allo Zorilla; e una allegrissima conversazione chiusa e suggellata da molte cordiali strette di mano, e da calde promesse di scriversi, di mandarsi libri, di venire in Italia, di tornare in Spagna, ec. ec.; non altro che parole, come sempre, ma parole non meno care per questo.

L'indomani partii per Siviglia. Alla stazione vidi Frascuelo, Lagartijo, il Cuco, e tutta la compagnia dei toreros di Madrid, che mi salutarono con uno sguardo benevolo di protezione. Mi cacciai in un vagone polveroso, e quando il treno si mosse, e Cordova apparve ai miei occhi per l'ultima volta, la salutai coi versi del poeta arabo, un po' troppo sensuali, se si vuole, per il gusto d'un europeo; ma, in fin dei conti, adatti all'occasione:

«Addio, Cordova! Per vivere sempre fra le tue mura, vorrei far vita più lunga di Noè. Vorrei avere i tesori di Faraone per spenderli in vino e in belle Cordovesi, dagli occhi soavi, che invitano ai baci.»