Pagina:De Amicis - Spagna, Barbera, Firenze, 1873.djvu/334

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328 siviglia.


Arrivai a un albergo, buttai la valigia nel patio, e cominciai a errare per la città. Mi parve di riveder Cordova ingrandita, abbellita e arricchita; le strade son più larghe, le case son più alte, i patios più spaziosi; ma l'aspetto generale della città è il medesimo; è quella bianchezza purissima, quella rete intricata di stradine, quell'odor diffuso d'aranci, quell'aria gentile di mistero, quella sembianza orientale, che desta nel cuore un sentimento dolcissimo di amorosa malinconia, e nella mente mille fantasie e desiderii e visioni d'un mondo lontano, d'una vita nuova, d'una gente ignota, d'un paradiso terrestre pieno d'amori, di delizie, di pace. In quelle strade si legge la storia della città; ogni balcone, ogni frammento di scultura, ogni crocicchio solitario rammenta l'avventura notturna d'un Re, le ispirazioni d'un poeta, le vicende di una bella, un amore, un duello, un rapimento, una favola, una festa. Qui è una memoria di Maria Padilla, là di don Pedro, più oltre del Cervantes, altrove del Colombo, di Santa Teresa, del Velasquez, del Murillo. Una colonna rammenta la dominazione Romana, una torre, lo splendore della monarchia di Carlo V, un alcazar, la magnificenza della corte degli Arabi. Accanto alle modeste casine bianche, s'innalzano i sontuosi palazzi marmorei; le piccole strade tortuose sboccano nelle vaste piazze popolate di aranci; dal crocicchio deserto e silenzioso si riesce, con un breve giro, nella strada corsa da una folla rumorosa; e per tutto dove si passa, si vedono a traverso i graziosi cancelli