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426 granata.


Eppure in quella sala lavorava un pittore! Lavorava da tre mesi a copiar quelle pareti! Era un tedesco. Il Gongora lo conosceva, e gli domandò: "È un lavoro che ammazza, non è vero?" E quegli rispose sorridendo: "Non mi pare," e si ricurvò sul suo quadro.

Lo guardai come avrei guardato una creatura d'un altro mondo.

Passammo negli stanzini da bagno, piccoli, fatti a vòlta, e rischiarati dall'alto per mezzo di alcuni fori aperti nel muro, in forma di stelle e di fiori. Le tinozze sono d'un sol pezzo di marmo, vaste, e serrate fra le due pareti. I corridoi che conducono da uno stanzino all'altro son bassi e stretti in modo che appena ci può passare un uomo; e vi fa un fresco che è una delizia. Affacciandomi a uno di quegli stanzini, fui preso tutt'a un tratto da un pensiero tristo.

"Che cos'ha che si rannuvola?" mi domandò l'amico.

"Penso," risposi, "al come viviamo noi, d'estate come d'inverno, in quelle case che paion caserme, in quelle stanze al terzo piano o buie o inondate da un torrente di luce, senza marmo, senz'acqua, senza fiori, senza colonnine; penso che dovremo viver tutta la vita così, e morire fra quelle pareti, senza aver provato una volta la voluttà di questi palazzi fatati; penso che anche in questa misera vita terrena si può immensamente godere, e che io non godrò nulla! Penso che potevo nascere quattro secoli fa re di Granata, e che sono nato invece un poveromo!"