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sta che fan quasi tutte le città meridionali della Spagna, troppo più belle, ahimè! che saggie e operose; e troppo più altere che civili. Ah! chi le ha vedute, non può mai stancarsi di esclamare: — Peccato!


— Ora che ha visto tutte le meraviglie dell’arte araba e della vegetazione tropicale, le resta a vedere, perchè possa dire di conoscer Granata, il borgo dell’Albaicin. Prepari l’animo a un mondo nuovo, metta la mano sul portamonete e mi segua. —

Così mi disse il Gongora l’ultima sera del mio soggiorno a Granata. Era con noi un giornalista repubblicano, di nome Melchiorre Almago, direttore dell’Idea, un giovanotto simpatico e gentile, che per accompagnarci sacrificò il desinare e un articolo di fondo che andava ruminando fin dalla mattina. Ci mettemmo in cammino, arrivammo fino alla piazza dell’Audiencia. Là il Gongora mi accennò una viuzza tortuosa che va su per un colle, e mi disse: — Qui comincia l’Albaicin; — e il signor Melchiorre toccando una casa col bastone, soggiunse: — Qui comincia il territorio della repubblica. —

Infilammo la viuzza, passammo da quella in un’altra, da questa in una terza, sempre salendo, senza ch’io vedessi nulla di straordinario, per quanto guardassi curiosamente da tutte le parti. Strade strette, case meschine, vecchie addormentate sugli scalini delle porte, mamme che spidocchian bambini, cani che sbadigliano, galli che cantano e ragazzi cenciosi che corrono e schiamazzano, e altre cose