di voltar le spalle a Madrid e tornarsene a casa. Dalla prima all'ultima colonna, eran tutt'una sfuriata d'ingiurie, d'imprecazioni e di minaccie contro l'Italia: corna del nostro Re, roba da chiodi dei nostri ministri, ira di Dio del nostro esercito; tutto fondato sulla voce, che allora correva, d'una prossima guerra, nella quale l'Italia e la Germania alleate si sarebbero gettate sulla Francia e sulla Spagna, per distruggervi il Cattolicismo, nemico eterno di tutt'e due, e mettere sul trono di San Luigi il Duca di Genova, e assicurare il trono di Filippo II al Duca d'Aosta. Erano minaccie nell'articolo di fondo, minaccie nell'appendice, minaccie nelle notizie, in prosa, in versi, con figurine, con lettere cubitali, con lunghe righe di puntini; dialoghi tra il padre e il figlio, l'uno da Roma, e l'altro da Madrid, questi che domandava: "Che cosa ho da fare?" quello che rispondeva: "Fucila!" di tratto in tratto un: "Vengano! siamo pronti! siamo sempre la Spagna del 1808; i vincitori degli eserciti napoleonici non hanno paura nè del muso degli Ulani di re Guglielmo, nè del gridío dei Bersaglieri di Vittorio Emanuele." — E poi Don Amedeo designato coll'appellativo di pobre bambino, l'esercito italiano chiamato un esercito di ballerini e di cantanti, gl'Italiani di Spagna invitati a sfrattare col poco gentile avvertimento di: — Italianos al tren! — (Italiani al treno); in somma, chiedete e domandate, ce n'era una per sorte. Vi confesso che, su quel subito, rimasi un po' turbato; m'immaginai che a Madrid gl'Italiani fossero poco meno che se-