Pagina:De Amicis - Sull'Oceano, 1889.djvu/227

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il piccolo galileo 223

e getti d’acqua violenti: si lasciavano innaffiare con gli occhi chiusi, come cani decrepiti. Tutto il piroscafo parve per molte ore immerso in un letargo profondo, e m’è ancora rincrescevole il ricordo di quel giorno, dopo tanto tempo, come quello della faccia d’un morto. Rivedo nell’afa del mezzodì il genovese disfatto dalla noia, che s’affaccia al mio camerino, e mi domanda: — Andiamo a veder ammazzare? — Come? chi ammazzano? — Un bove: egli lo sapeva sempre il giorno prima, e andava a vedere, per sbattere l’uggia. Oh ore eterne, passate col naso al finestrino, a guardare con gli occhi stupidi quel mare dell’accidia e del sonno! Dicono che il tempo è moneta, ed io avrei dato un secolo di quelle ore per cinque centesimi. E mare, e mare, e mare. Quel Mediterraneo lassù mi si presentava alla fantasia piccolissimo, come un laghetto azzurro soffocato tra i monti, e lontano al di là d’ogni idea; e quel non vedere mai altro che acqua ed acqua mi faceva balenare l’orribile sospetto che si fosse sbagliato rotta, e che si filasse diritto verso il polo antartico, per andar a cozzare nei ghiacci eterni. Fortunatamente mi venne a scuotere Ruy Blas; il quale, guardandomi con un occhio pesto che voleva far indovinare una notte