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e sopra tutto i teatri di musica, dei quali parlavan con passione d’adolescenti, ma facendomi capire che non avevan nulla da invidiarci a questo riguardo, poiché essi facevano andar l’Europa a cantare e a ballare a casa loro. Quanto all’Italia, non riuscii a scoprire, sotto la necessaria cortesia della frase, il loro sentimento vero. Si compiacevano della nostra immigrazione, come d’un concorso di ottimi lavoratori, e accennando gli emigranti, dicevano: — Tutto questo è tant’oro per noi. — Portateci pure tutta l’Italia, pur che lasciate a casa la Monarchia. — E si capiva che a loro, come ai rivoluzionari francesi del secolo scorso, una povera creatura umana soggetta alla Monarchia pareva meritevole della più sincera commiserazione; e che ci dovevano considerare, noi europei, come una specie d’uomini nati vecchi, strascicantisi in mezzo agli avanzi tristi d’un mondo morto, o anche un po’ affamati per professione. Di sotto a questi sentimenti, lampeggiava un orgoglio nazionale vivissimo; l’orgoglio d’un piccolo popolo, che ha vinto la grande Spagna, umiliata l’Inghilterra, e allargato i confini del mondo civile, spazzando la barbarie da un paese immenso, per darvi ospizio e vita a gente d’ogni lingua ed’ogni razza. Infatti, due volte la settimana almeno essi