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tane, circolavano equipaggi di gran lusso, con bellissimi e fortissimi cavalli. Signoreggiavano le carrozze di Piombino, di Rospigliosi, di Borghese, di Massimo, di Torlonia. Erano phaetons, calèches, berline, vittorie, ed altre vetture di gala. Quel Corso, nell’ora della passeggiata domenicale, oscurava Toledo e Chiaia per proprietà ed eleganza, ma viceversa era così malinconico rispetto a quelli, e rispetto alle Cascine di Firenze!

Guglielmo Capitelli, che fu a Roma nel maggio di quello stesso anno, reduce da Firenze, riportò le stesse impressioni, delle quali mi fa cenno in una sua lettera.

Giunsi all’imbrunire, egli scrive, ed alloggiai alla Minerva, grande albergo frequentatissimo da preti e vescovi. L’impressione fattami dalla città, che vidi di sera, fu quasi di sgomento. Le vie erano, verso le ore dieci, quasi deserte, è la scura e pallidissima luce dei fanali, e l’incontro frequente di gendarmi pontifici davano ai monumenti, alle fontane, ai grandi palazzi, un aspetto lugubre. V’era come una mistica poesia di memorie secolari, come una stanca evocazione di gloria e di potenza; ma da piazza Navona al Corso, a San Pietro, e poi al Fôro, al Campidoglio, al Colosseo, sentivo una solitudine opprimente, e pareami essere in una necropoli immensa, in una città segregata dal mondo moderno.


Un particolare curioso. La custodia della colonna Antonina era affidata ad un lustrascarpe della piazza, il quale, mercè la tenue moneta di mezzo baiocco, apriva l’uscio e permetteva che il curioso andasse a morì ammazzato, non essendo rarissimi i salti mortali dall’alto della colonna. E dietro piazza Venezia, attraversata l’angusta Ripresa dei Barberi, fra il palazzetto Torlonia, il palazzo Nepoti e il palazzetto Venezia, cominciava, con la via Giulio Romano, quel quartiere o borgo umidiccio e incredibilmente sudicio, che prendeva nome di Macel de’ Corvi e di Pedacchia. Pareva impossibile, che in quel saliscendi barbaresco, che si stendeva dalle pendici del Campidoglio a piazza Venezia e al Foro Traiano, e le cui prime case rimontavano al quinto secolo, si annidasse e vivesse una popolazione nei tempi moderni. Dal giorno in cui, cadendo l’impero, gli agricoltori, cacciati dalla malaria, abbandonarono la campagna ed accamparono a pie’ delle storiche alture, Roma prese, via via, l’aspetto di un aggregato di borghi rurali, quasi una città fatta a pezzi, nè, sotto alcuni rapporti, questo aspetto mutò. E da qui le con-