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la confessione 233

Quell’assassinio del quale la giustizia aveva pure da chiederle conto non si confondeva quasi col suicidio liberatore?

Così l’intrico era sciolto. Ma restava tuttavia al Ferpierre di chiamare Zakunine. Riferendo alla nihilista che il principe si era accusato, egli aveva mentito per amore di fare la luce; ma un dubbio ora gli s’affacciava alla mente: se, udendo che Zakunine s’incolpava, la giovane si era incolpata ella stessa, che cosa avrebbe detto il principe udendo la confessione di lei? Si doveva sospettare che entrambi si sarebbero dichiarati colpevoli?

Il contegno del principe, dall’ultimo interrogatorio, era, secondo la relazione del direttore dell’Evêché, radicalmente mutato. Non passava più il suo tempo, immobile e silenzioso, indifferente a ogni cosa: l’insofferenza della prigionia lo faceva ora dare in ismanie. Aveva chiesto di parlare con un avvocato, e non avendolo ottenuto si era sfogato con parole dure contro la giustizia. Più volte in un giorno chiamava i guardiani per domandar loro se era venuto l’ordine di scarcerazione; udendo le risposte negative s’accigliava e fremeva. Misurava in lungo e in largo la sua cella, con le mani strette sul dorso, il capo chino, lo sguardo fisso e duro. Aspettava l’ora dell’uscita quotidiana con impazienza, rientrava più torvo di prima. Chiedeva libri, rifiutava il cibo della prigione, faceva venire da fuori il suo vitto.