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spasimo 267

zione dell’odio del Vérod? Una specie di sordo e assiduo rimorso l’occupò lungo tempo all’idea di avere spinto una innocente a un sacrifizio terribile; poi quel suo errore si confuse con altri, egli pensò che non c’era stata altra colpa da sua parte se non quella d’uno zelo soverchio nell’accertare l’accusa, e così anche per lui la memoria di quei fatti si venne alfine perdendo.

Roberto Vérod diceva a sè stesso che anch’egli avrebbe dimenticato, ma il tempo tardava a produrre l’usato benefizio.

Certe volte, quando un nuovo pensiero lo toglieva alle dolorose memorie, egli tremava perchè il pensiero nuovo era senza fine più grave. Dinanzi all’evidenza egli aveva dovuto riconoscere il proprio torto, ammettere l’ingiustizia delle proprie accuse, convenire che solo l’odio glie le aveva suggerite. Dinanzi alla prova palese egli dava ragione al severo giudizio del magistrato, sentiva d’avere anch’egli contribuito alla morte dell’infelice; e il rimorso che un tempo gli era parso atroce, ora quasi gli parea lieve. Egli non solamente non tentava di scagionarsi, ma insisteva con una specie di cupa efficacia nel confessare l’errore, s’incolpava acerbamente, accresceva il peso della propria responsabilità per tentar di sottrarsi a un pensiero senza fine più molesto: invano. Egli voleva pensare che l’amor suo aveva uccisa quella donna, per non credere che ella ne era immeritevole.