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vii. «il sentimento nazionale | 203 |
Egli guarda: e non c’è una madre, una sorella, un vegliardo che cerchi separare i combattenti; vede invece una folla stupida e indifferente, che se ne sta come in un circo a goder lo spettacolo, vede ognuno senza curarsene
Raccontar le migliaia de’ morti, E la pièta dell’arse cittá. |
Guarda e vede il fanciullo che apprende a distinguere il nemico con nomi di scherno, vede le donne che fan pompa dei monili e de’ cinti rapiti alle donne de’ vinti. Tutti questi non sono pensieri, ma fatti, sotto cui pullulano i pensieri che altri poeti metterebbero in forma di concetti e di raziocina.
Giunto qui gli esce un lamento: «Ahi! sventura!», e si rivolge alla battaglia, come un uomo che dopo aver veduto una cosa orribile, la contempla a parte a parte, quasi volesse saziarsi di guardarla. La battaglia continua, si vedono alcuni darsi alle gambe, altri perseguitarli, la fuga, la vittoria, infine un corriere al quale tutti vanno incontro. Questo è pieno movimento drammatico, che giunge sino a un punto ove l’azione cessa e scoppia l’indignazione, quando una folla stupida accalcandosi intorno al corriere domanda:
Che gioconda novella recò? |
Scoppia l’indignazione sotto una delle più belle forme drammatiche. Il poeta dimentica di essere spettatore, si scambia con quei personaggi, diventa lui l’araldo; ma quell’araldo è l’uomo moderno il quale chiede:
Donde ei venga, infelici, il sapete, E sperate che gioia favelli? I fratelli hanno ucciso i fratelli: Quest’orrenda novella vi do! |
Ricordo che ogni volta che si dicevano questi versi quando l’Italia non avea ancora raggiunta l’unità nazionale, quando a Na-