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94 giacomo leopardi
I libri, e particolarmente i vostri, scrive a Giordani, mi scorano insegnandomi che la bellezza appena è mai che si trovi insieme colla virtù, non ostante che sembri compagna e sorella. Il che mi fa spasimare e disperare. Ma questa medesima virtù quante volte io sono quasi strascinato di malissimo grado a bestemmiare con Bruto moribondo. Infelice, che per quel detto si rivolge in dubbio la sua virtù, quand’io veggo per esperienza e mi persuado che sia la prova più forte che ne potesse dar egli, e noi recare in favor suo.

        La canzone di Bruto gli si andava già volgendo pel capo. Una frase lugubre gli viene spesso sotto la penna: «disperare di sé stesso». Il niente, prima ancora che divenisse in lui una filosofia, era già una realtà. E forse nessuno ha concepito il niente in modo così spaventevole, come lo sente e lo rappresentava lui in questa lettera:

Sono stordito del niente che mi circonda... Non ho più lena di concepire nessun desiderio, né anche della morte; non perché io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a consolarmi neppure il dolore. Questa è la prima volta che la noia non solamente mi opprime e stanca, ma mi affanna e lacera come un dolor gravissimo, e sono così spaventato della vanità di tutte le cose, e della condizione degli uomini, morte tutte le passioni, come sono spente nell’animo mio, che ne vo fuori di me, considerando che è un niente anche la mia disperazione.

A questa lettera spaventevole si scuote Giordani e risponde:

Mio caro Giacomino, io non so che dirti; e il caso tuo non è più da parole. E vedi bene che io nulla posso. Ma posso amarti e compiangerti; e credimi che il cuor mio si rompe de’ tuoi guai. Con sospiri infiniti e con amore immenso ti abbraccio.

Parole che bastavano a risuscitare nel giovane il fervore dell’amicizia, e a rinnovargli la consolazione delle lacrime.