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XII

1820


CANZONE AL MAI

Il dualismo si accentua in questo anno. La malattia continua, e con essa il suo torpore. Il 20 marzo scrive a Giordani:

Mi domandi che cosa io pensi e che scriva. Ma io da gran tempo non penso né scrivo né leggo cosa veruna per l’ostinata imbecillità de’ nervi degli occhi e della testa: e forse non lascerò altro che gli schizzi delle opere ch’io vo meditando.

La maggior trafittura era il non poter studiare.

Non m’accorgerei, certamente non sentirei tutta la nullità umana se potessi ancora trattenermi negli studi. Non ho mai trovata sorgente più durevole e certa di distrazione e dimenticanza, né illusione meno passeggera.

Così dice a Giordani il 14 gennaio; e il 7 aprile dice a Pietro Brighenti di Bologna, un amico di casa:

Son risoluto sacrificare l’ingegno all’immutabile ed eterna scelleratezza della fortuna, col seppellirmi sempre più nell’orribile nulla, nel quale son vissuto fino ad ora... Non pensi più a me se non come all’uomo il più disperato che si trovi in questa terra, e che non è lontano altro che un punto dal sottrarsi per sempre alla perpetua infelicità di questa mia maledetta vita.