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xvi. 1822 - leopardi in roma 153

torno. È uno stato, nel quale il folle ha già oltrepassata la tentazione del suicidio. Leopardi s’è assuefatto alla noia, s’è assuefatto alla vita. E non pare che indi innanzi avesse tentazione di suicidio, com’ebbe nei primi anni. Quel suo nullismo nelle azioni e nei fini della vita, che lo rendeva inetto al fare e al godere, era riempiuto dalla colta e acuta intelligenza e dalla ricca immaginazione, che gli procuravano uno svago e gli facevano materia di diletto quel suo stesso soffrire. Egli aveva la forza di sottoporre il suo stato morale alla riflessione e analizzarlo e generalizzarlo, a fabbricarvi su uno stato conforme del genere umano. Ed aveva anche la forza di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e melodie, e fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino il suicidio, e appunto perché può trasferirlo nella sua anima di artista e immaginare Bruto e Saffo, non c’è pericolo che voglia imitarli. Anzi, se ci sono stati momenti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più felice del poeta o del filosofo nell’atto del lavoro? L’anima attirata nella contemplazione, esaltata dalla ispirazione, ride negli occhi, illumina la faccia. Egli viveva ne’ suoi libri e ne’ suoi lavori, meditando, immaginando. Non poteva lavorare molto, ma lavorava seriamente, con tutta l’anima dentro; limava a non finirla mai, non si contentava facilmente. Momenti rari, che dovevano disporlo a sopportare filosoficamente quella sua esistenza prosaica e vacua, dalla quale sapeva pur cavare materia di così squisiti piaceri intellettuali. La sua salute migliorata, la sua facoltà di lavoro filosofico e poetico, una certa rassegnazione stanca divenuta abitudine a vivere così giorno per giorno senza cercare altro, uno assopimento de’ desiderii e delle aspirazioni che gli rendeva alieno il mondo esteriore, quel vivere in sé e di sé in comunione con pochi amici, tra i quali Giordani e Brighenti, tutto questo rendeva la sua esistenza tranquilla, se non felice.

Nell’ultima sua lettera da Recanati manda al Brighenti il danaro per pagargli le poesie del Parini e due volumi delle prose del Giordani. In queste lettere non è più indizio di esaltazione alcuna, non di entusiasmo; il tono è ordinario, e talora scherzoso; ha preso in pazienza la vita. Aveva ventiquattro anni, e