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Pagina:De Sanctis, Francesco – Giacomo Leopardi, 1961 – BEIC 1800379.djvu/336

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330 giacomo leopardi

Nello stesso anno che il Leopardi scriveva il Saggio, non intermetteva i soliti studi degli antichi, trascrivendo, compendiando, e traducendo. E già fin dal passato anno 1814, trovo fatta menzione di una sua versione del libro di Esichio Milesio: De viris doctrina claris e della vita di Plotino, scritta da Porfirio. Avendo tra mano una moltitudine di comentatori, che occupano i tre quarti di una biblioteca a forma antica, come era la sua, il traduttore si volta in comentatore. Ed ecco in quell’anno 1814 uscir fuori un comento sulla vita di Plotino, e poi comenti su taluni antichi retori, e poi ancora una raccolta di frammenti di cinquanta padri, e tutto in latino e tutto inedito.

Il primo comento, manoscritto nitidissimo, ha in fronte queste parole di mano di Monaldo Leopardi: «Oggi, 31 agosto 1814, questo suo lavoro mi donò Giacomo, mio primogenito figlio, che non ha avuto maestro di lingua greca, ed è in età di anni sedici, mesi due e giorni tre». Fu mandato in Roma al Cancellieri, che allora scriveva una dissertazione degli uomini chiari per memoria, come volessero dirgli: guarda che miracolo di memoria! Lo vide anche lo svedese Akerblad, distinto poliglotto che disse «Parmi che così erudita opera di un giovine ancora in tenera età sia di ottimo augurio per l’Italia; che potrà sperare di vedere un giorno comparire un filologo veramente insigne». E lo vide Creuzer, che aveva consumato una vita intorno a Plotino, e che non disdegnò di valersene nelle sue appendici Addenda et Corrigenda.

Gli altri due lavori sono un tentativo di ricostruzione. Vuol rifare la vita e gli scritti di uomini già chiarissimi, di cui non era rimasto quasi che il nome. Come da alcuni frammenti latini alcuni tentano ricavare il mondo preistorico, il giovane usa quella sua erudizione infinita a rifare nella vita e negli scritti Ermogene, Elio Aristide, Dione Crisostomo, Cornelio Frontone e molti altri padri del secondo secolo. Chi guardi alla fresca età e alla straordinaria dottrina, non troverà esagerazione la lode del De Sinner e del Thilo, né che il Niebuhr lo chiami «Italiae conspicuum ornamentum» e lodi «candidissimum praeclari adolescentis ingenium et egregiam doctrinam».

Tutti questi lavori furono fatti in solo quell’anno; il lavoro intorno a’ retori fu scritto in poco più di un mese, celerità possibile solo a colui che spendeva le giornate a leggere, chiuso in una biblioteca, e tutto ciò che leggeva fissava in carta e faceva suo con ogni maniera di esercizii.

Ci è dentro più che un sapere di biblioteca, quel leggicchiare antologie e dizionarii storici che procaccia fama di erudizione a buon mercato, ci è un sapere condensato e assimilato. Pure, messa l’età e il breve tempo, ci possiamo accostare al giudizio del De Sinner, il quale ci trova ardore ed immaginazione giovanile più che maturità di giudizio. Il dotto comentatore latino aveva solo sedici anni. È l’età che potrei chiamare la luna di miele dell’immaginazione, il quarto d’ora di poesia concesso a tutti; e quando Ennio Visconti, divenuto poi il principe degli eruditi,