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14 la giovinezza

d’ipecacuana. Talora, vista inutile l’azione delle purghe, ricorrevano al sale inglese, a costo di vedermi scoppiare. Di sotto a quella cura uscivo magro, e fragile e sottile come una canna, e parevo Nicola Valletta mezzo vivo e mezzo morto.

IV

GENOVIEFA

Anche oggi non posso pronunziare questo nome senza un battito di core. Genoviefa aveva qualche anno più di me, ed era mia sorella ed era l’anima mia. Mi comandava con l’occhio dolce. E cantava e saltellava sempre, ed era bianca e rossa, come dicono nel mio paese, e vogliono intendere ch’era bellissima. Piccina la mandarono a Napoli a gran contentezza di zia Marianna, che la vestiva come una bambola. Quando andava per le vie, con quelle braccia nude e bianche, era una gioia, e tutti la guardavano. Mamma lo seppe, e si spaventò che con tanti vezzi e ninnoli non le guastassero il cuore, e rivolse la figliuola a casa. Ci fu un gran dire. Zia Marianna canzonava la mamma di quelle sue maniere semplici paesane, e strepitava che la era una rozza provinciale, e che non capiva la moda; e non voleva a nessun patto gliela togliessero via. Mamma non aveva la zia in odore di santità, e trepidava a lasciarle in mano la piccina; era una buona donna, di costumi austeri, e non voleva orpelli né vanità. Vinse l’autorità materna, e riebbe la figliuola. Quella breve dimora in Napoli non le fu inutile. Venne tutta gentile, aggraziata di modi e di parlare, spigliata e maliziosetta. Io la guardavo con gli occhi rotondi e fissi, e non sapevo staccarmi da lei; e lei mi prendeva in grembo e mi dava baci, e mi faceva girare come una pallottola. Anche mamma faceva bocca da ridere a vederla ballare tanto carina. Quando toccò a me di andare in Napoli, voleva menarla meco; mamma non volle, e io piansi assai. Nelle mie lettere al babbo c’era sempre una riga per Genoviefa. Quando narravo tra molti vanti le mie vittorie sco-