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il marchese puoti 35

aveva di me qualche gelosia, massime quando con le mie letture lo accoppava, tra le risa del Marchese. Secondo il mio costume in un anno mi avevo messo in corpo più roba che non potessi digerire. Avevo i miei favoriti, Agnolo Pandolfini, Domenico Cavalca, Iacopo Passavanti, ch’erano per me gli dei maggiori, circondati dalla turba delle minori divinità. Sapevo «per lo senno a mente» un’infinita quantità di modi e di frasi, che mi rimanevano impressi senza ch’io dovessi trascriverli; era divenuto loquace e presuntuoso, e la sera e la mattina faceva sempre nuove osservazioni, e il Marchese mi rideva, e Meledandri si facea verde. Ben presto uscii dalla moltitudine, e andai tra gli Eletti. Il mio piacere non fu intero, perché Giovannino era rimasto indietro col naso lungo. Zio Pietro venne al Marchese, sicché una quindicina di giorni dopo venne tra gli Eletti anche Giovannino. C’era li molti giovani valorosi, come i fratelli Del Giudice, Gatti, Cusani, Ajello, Florio, Capozzi. Il Marchese cominciò a domandare il mio avviso intorno ai lavori, e io parlando in pubblico, cominciai a moderare la mia foga, a battere sulle finali, a spiccar bene la voce, ad accentuare e intonare, secondo il senso, mi tolsi in gran parte quel vizioso leggere e parlare che mi faceva balbutire. Questo era un grande progresso.

Una sera il Marchese volle si scrivesse una novella. Doveva essere la storia d’una donna sventurata. Io ci pensai molto. Trovai in un dizionario geografico tra i villaggi di Firenze indicato Signa. Non so perché, questo nome mi piacque, e posi là il teatro del fatto. Dissi poi: — Che nome darò a questa donna? — E le diedi il nome di mia madre, e la chiamai Agnese. L’orditura era molto semplice; ma tutto era insipido, e non c’era altro sapore che di frasi. Pure piacque infinitamente, e la mia riputazione fu assicurata, e fui annoverato tra gli scrittori esimii o eccellenti, come si diceva. Serbai quella novella tra le mie carte più prelibate; per lungo tempo mi parve quello un capolavoro.

Presi a poco a poco lo stile del Marchese, con un po’ di affettazione, come sogliono fare gl’imitatori. Quello stile consisteva in una certa scelta di parole solenni o nobili, non logore dall’uso, e non troppo antiquate, e in un certo periodare non troppo complicato o alla boccaccevole, ma pur sostenuto, solenne, copioso.