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xii - il cinquecento 389


negando l’immortalitá dell’anima. Era il vero motto, il segreto del secolo, la coscienza filosofica di una societá indifferente e materialista, che si battezzava platonica, predicava contro i turchi e gli ebrei, voleva il suo papa, il suo Alessandro sesto, che cosi bene la rappresentava, e non poteva perdonare al Pomponazzi di dire ad alta voce i suoi segreti, quando ella medesima non si aveva fatta ancora la domanda: — Cosa sono? e dove vado? —

Questa societá tra balli e feste e canti e idilli e romanzi fu un bel giorno sorpresa dallo straniero e costretta a svegliarsi. Era verso la fine del secolo. Il Pontano bamboleggiava in versi latini e il Sannazaro sonava la sampogna; e la monarchia disparve, come per intrinseca rovina, al primo urto dello straniero. Carlo ottavo correva e conquistava Italia col gesso. Trovava un popolo, che chiamava lui un barbaro, nel pieno vigore delle sue forze intellettive e nel fiore della coltura, ma vuota l’anima e fiacca la tempra. Francesi, spagnuoli, svizzeri, lanzichenecchi insanguinarono l’Italia, insino a che, caduta con fine eroica Firenze, cesse tutta in mano dello straniero. La lotta durò un mezzo secolo, e fu in questi cinquantanni di lotta che l’Italia sviluppò tutte le sue forze e attinse quell’ideale che il Quattrocento le aveva lasciato in ereditá.

All’ingresso del secolo incontriamo Machiavelli e l’Ariosto, come all’ingresso del Trecento trovammo Dante. Machiavelli aveva giá trentun anno, e ventisei ne aveva l’Ariosto. E sono i due grandi, ne’ quali quel movimento letterario si concentra e si riassume, attingendo l’ultima perfezione.

Gittando un’occhiata sull’insieme, è patente il progresso della coltura in tutta Italia. Il latino e il greco è generalmente noto, e non ci è uomo colto che non iscriva corretto ed anche elegante in lingua volgare, che oramai si comincia a dire senz’altro «lingua italiana». Ma fuori di Toscana il tipo della lingua si discosta dagli elementi locali e nativi e si avvicina al latino, producendo cosi quella (orma comune di linguaggio che Dante chiamava «aulica e illustre». I letterati, sdegnando i dialetti e vagheggiando un tipo comune, e riconoscendo nel latino la