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xiii - l’«orlando furioso» 13


ride a spese degli altri e anche un po’ a sue spese, e senza ch’egli se ne accorga o se ne guardi. In un secolo cosí artificiato, dove per soverchio studio d’imitazione o per conseguire certi effetti artistici si perdeva di vista la realta della vita, Ludovico, che scrivendo commedie o canzoni e sonetti petrarcheschi si pone in un mondo convenzionale, qui, in presenza di se stesso, come Benvenuto Cellini, crea un carattere comico de’ piú interessanti, perché non è solo il suo ritratto, ma del borghese e letterato italiano a quel tempo, nel suo aspetto men reo. Ha visto Roma, ha visto Firenze, è stato in Lombardia; ma il suo mondo non si è ingrandito, il suo centro è rimasto Ferrara; e le sue cure domestiche, i suoi umori con la corte, i suoi piccoli fastidi, i suoi amori, le sue relazioni letterarie, i suoi interessi privati sono tutta la sua preoccupazione, allora appunto che l’Italia era corsa da’ barbari e si dibatteva nella sua agonia. Il borghese colto, spensierato, pigro, tranquillo, ritirato nella famiglia o tra le allegre brigate, è tutto qui con la sua quiete e il suo «fuge rumores». Ci è in questo ritratto un po’ di Orazio; ma l’imitazione è qui natura, è somiglianza di anima e di genio. Il riso è puro di amarezza e di disprezzo, perché senti che l’uomo di cui tu ridi è onesto, gentile, ingenuo, inoffensivo, ha tutte le qualitá amabili delle anime deboli e buone. Non ci è il capitolo e non la satira, perché quell’uomo non si propone di berteggiare né di censurare, ma unicamente di sfogare il suo umore col fratello o l’amico. E perciò la sua narrazione è mescolata di osservazioni, facezie, motti, proverbi, movimenti stizzosi d’immaginazione, tratti e pitture satiriche, e soprattutto di apologhi graziosissimi, piccoli capilavori. La terza rima, il linguaggio eroico e tragico del medio evo, il linguaggio della Divina commedia e de’ Trionfi, in questa profonda trasformazione letteraria diviene il linguaggio della commedia, il metro del capitolo, della satira e della epistola, con una sprezzatura che arieggia alla prosa. La parabola si compie in queste epistole dell’Ariosto, dove la terzina è profondamente modificata e prende forma pedestre, aguzzata e sentenziosa, come un epigramma o un proverbio.