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156 la giovinezza

dirmi, abusando dei suo ufficio. Io non sapevo nulla dei fatti suoi, anzi neppure chi abitasse in quella casa, sprofondato nelle mie lezioni. Un di venne un feroce, come chiamavano la bassa gente di polizia, e m’invitò a recarmi presso l’ufficio. Era la prima volta che mi succedeva questo. La polizia era per me un nome scuro e pauroso, ma non altro che un nome; non ci avevo avuto mai che fare. Ci andai con la faccia scura: «Che sarà?» Trovai li un signore grosso e tondo, che fece una brutta cera, e mi scaraventò certe parole grasse alla napoletana. Io restai grullo. Quando la tempesta fini, e mi fece capire cosa c’era sotto, io, sicuro del mio diritto e poco pratico del mondo, risposi secco che in casa mia ero io il padrone, e potevo ballare a mia posta. L’amico, rauco per lo sforzo della voce e per la rabbia, balbettò che mi avrebbe insegnato lui l’educazione. Voltai le spalle e andai via sbuffando. Narrai il caso, e la compagnia si mise a far peggio, quasi a dispetto. Allora mi sentii chiamare in ufficio per «esibire il permesso della scuola». Questo mi impensierì. Io non avevo laurea né permesso, ero nel caso di quasi tutti i maestri, non perché la legge non ci fosse, ma per una cert’abitudine di tolleranza, che lasciava correre le cose. Capii onde veniva il tiro: quel signore li non mi avrebbe lasciato più quieto. Avrei potuto accopparlo, perché il prefetto di polizia aveva non so quale parentela con la famiglia Amante, a me affezionata; e poi c’era il Marchese. I ballerini mi aizzavano, e qualche brutta idea di vendetta mi tentò un momento; ma la mia natura mite rifuggiva dalle soverchierie, e cercai un altro modo. Me ne aprii con un tale Albanesi, che faceva gli affari del mio padrone di casa. Costui sorrise del mio imbarazzo e della mia inesperienza, e disse che lasciassi fare a lui, e stessi tranquillo, che del permesso non si sarebbe parlato più. Poi in tuono paterno aggiunse: — Ballate pure, ma in ogni cosa c’è modo — . Non so che via tenne. L’effetto fu che quel signore, una volta che scendevo, si fe’ trovare sull’uscio di casa, e mi tese la mano, e mi si profferse, dichiarandosi mio buon vicino, stimandomi un giovane dabbene, di cui aveva inteso a far molta lode. Io interrompeva e cercavo di venire al quatenus; ma lui