Pagina:Deledda - Canne al vento, Milano, 1913.djvu/215

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Ed Efix s’inginocchia ma non prega, non può pregare, ha dimenticato le parole; ma i suoi occhi, le mani tremanti, tutto il suo corpo agitato dalla febbre è una preghiera.


A misura che saliva verso Nuoro sentiva come un gran cuore sospeso sopra la valle palpitare forte, sempre più forte.

— È il Molino, e Giacinto è là, — pensò con gioia.

Era l’ultima tappa del suo viaggio mondano, l’ultima salita del suo calvario, quel vicolo in salita, lurido, oleoso, con un gattino morto in mezzo alle immondezze e il cielo rosso sopra i muri alti coperti di gramigne.

Arrivato a metà si volse: l’ombra saliva dalla valle, descrivendo un cerchio bruno su per le chine rosee dell’Orthobene, e raggiungeva anche lui su per il vicolo. In alto era l’ansito del Molino, un palpito maschio in contrasto col richiamo femineo d’una campana che suonava a vespro; e sullo sfondo della strada passavano contadini coi buoi aggiogati, borghesi imponenti come don Predu, donne con anfore sul capo: altre donne sedevano, pallide, in riposo, sulle pietre dei muricciuoli che recingevano un cortiletto esterno.

Efix si mise a parlare con loro, fermo stanco con la bisaccia che gli scivolava dalle spalle.