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Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/189

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Dopo un lungo ed inutile vagabondare rientrò a casa e si mise a scrivere a Margherita.

«Sono mortalmente triste: ho sull’anima un peso che mi opprime e mi schiaccia. Da molti anni io volevo dirti ciò che ti scrivo adesso; in questo triste giorno di pioggia e di melanconia. Non so come tu accoglierai la rivelazione che sto per farti; ma qualunque cosa tu possa pensare, Margherita, non dimenticare che io sono trascinato da una fatalità inesorabile, da un dovere che è più terribile d’un delitto....»

Arrivato alla parola «delitto» si fermò e rilesse la lettera incominciata. Poi riprese la penna, ma non potè tracciare altra parola, vinto da un gelo improvviso. Chi era Margherita? Chi era lui? Chi era quella donna? Cosa era la vita? Ecco che le stupide domande ricominciavano. Guardò lungamente i vetri, il filo di ferro, gli anellini ed i lacci bagnati e saltellanti su uno sfondo giallastro, — e pensò:

— Se mi suicidassi?

Lacerò lentamente la lettera, prima in lunghe striscie, poi in quadrettini che dispose in colonna, e tornò a fissare i vetri, il filo di ferro, i laccetti che parevano marionette. Rimase così finchè la pioggia cessò, finchè il compagno lo invitò ad uscire.

Il cielo si rasserenava; nell’aria molle vibravano i rumori della città rianimatasi, e l’arcobaleno s’incurvava, meravigliosa cornice, sul quadro umido del Foro Romano.

Al solito, i due compagni salirono per Via Na-