Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/198

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a trecce strette appuntate fortemente sulla nuca, le davano un’aria graziosa.

— Lei è sardo? Ho piacere.... — rispose disinvolta. — Adesso non ho camere disponibili, ma se lei può pazientare una quindicina di giorni, ho una signorina inglese che deve partire....

Egli chiese ed ottenne di veder la camera; il letto stava al centro, fra due cataste di libri vecchi e d’oggetti antichi; entro una vasca di gomma, ancora piena d’acqua insaponata, olezzava un fascio di gaggie; dalla finestra si scorgeva un giardinetto melanconico. Sul tavolino Anania vide, fra gli altri, un volumetto che egli amava con passione dolorosa. Erano i versi di Giovanni Cena: Madre.

— Ho bisogno di andar subito via dalla casa dove sto; prenderò questa camera, ma intanto, non potrebbe darmene un’altra, fosse anche un buco?...

Rientrarono nel salottino, ed egli si fermò a guardare la testa imbalsamata del cervo.

— È un ricordo di mio padre, che era cacciatore, — disse la donna, sorridendo con bontà.

— È di Nuoro, lei?

— Sì, ma sono nata là per caso.

— Anch’io sono nato per caso nel villaggio di Fonni, — egli disse, guardandola in viso.

— Sì, sono nato a Fonni; mi chiamo Anania Atonzu Derios.

Ella non battè palpebra.

— No, non è lei! — egli pensò, e si sentì felice.