Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/247

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s’odono fischi d’uccelli palustri; un pastore, bronzeo su uno sfondo luminoso, guarda l’orizzonte.

La corriera si fermò un momento davanti alla cantoniera. Seduta sul gradino della porta, una donna in costume tonarese, tutta fasciata nelle ruvide vesti come una mummia egiziana, scardassava un mucchio di lana nera con due pettini di ferro: poco distante tre bimbi laceri e sporchi giocavano, o meglio si accapigliavano fra loro. Ad una finestra apparve un viso scarno e giallo di donna ammalata, che guardò la vettura con due grandi occhi verdognoli, pieni di stupore. La cantoniera desolata pareva l’abitazione della fame, della malattia e del sudiciume. Anania si sentì stringere il cuore: egli conosceva perfettamente il dramma tristissimo svoltosi ventitrè anni prima in quel luogo solitario, in quel paesaggio rude e fresco, che sarebbe stato così puro senza l’immondo passaggio dell’uomo.

La corriera riprese il viaggio: ecco Mamojada, emergente tra il verde degli orti e dei noci, col campanile chiaro disegnato sull’azzurro tenero del cielo; da lontano il quadretto aveva le tinte delicate d’un acquerello, ma appena la corriera si inoltrò su per lo stradale polveroso, il profilo del paesetto prese tinte cupe, ancor più forti di quelle del paesaggio. Davanti alle casette nere costrutte sulla roccia s’aggruppavano caratteristiche figure di paesani: donne graziose, coi capelli lucenti attortigliati intorno alle orecchie, scalze, sedute per terra, cucivano, allattavano,