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al servizio del re 145


sto con la mano, invitando la guardia ad allontanarsi.

Non fu possibile convincere i due fierissimi uomini a lasciarsi fotografare e misurare. Rimaneva un altro detenuto, un giovane vedovo allegro e beffardo. Sulle prime anche lui per non apparire da meno dei vecchi, rifiutò di seguire la guardia; poi rise, con una risata strana che pareva il canto di un gallo, e andò. Al ritorno disse:

— Quante favole ho raccontato a quel morto di fame che ci misurò il naso! Gli dissi che mio padre e mia madre soffrivano di mal caduco e che mio nonno era pazzo. Egli rideva contento come se gli avessi regalato due vacche!


Passarono altri ed altri giorni. Il caldo era soffocante; il vento ardente che penetrava dalle inferriate portava un odore di stoppie e di macchie bruciate che dava un senso di nostalgia a quegli uomini dei campi e delle foreste, avvezzi a combattere, durante l’estate, contro gli incendi così frequenti nelle loro campagne. Sopra tutto zio Salvatore sembrava inquieto.

— Deve esserci un incendio nella Serra. — diceva, fiutando l’aria, — e i miei boschi di soveri bruciano, vi possano bruciar l’anima! E imprecava minacciando l’inferriata.

Quando i detenuti furono lasciati in pace dal fotografo e dall’«affamato» ricominciarono ad annoiarsi: per fortuna fu introdotto nella camerata un nuovo detenuto, un prete giovane e