Pagina:Deledda - Colombi e sparvieri, Milano, 1912.djvu/168

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La scatola era piena di biscottini, piccoli, secchi e sottili come ostie. Pretu provò un senso di delusione.

— Umh! saran buoni? Poteva mandare di quelli freschi!

— Questi son fini, son di lusso, — disse Jorgj con voce grave. Mangiane uno.

Mangiatelo voi.... Son biscotti da malato!

Ma nella cassetta c’era ancora roba: tre o quattro involtini legati con volgare spago grigio. E trae e svolgi e guarda, servo e padrone tornarono completamente alla realtà di tutti i giorni. Un involtino conteneva del cacao, un altro zucchero, un altro tre scatole di sardine, l’ultimo infine un salame.

Ma a misura che Pretu si rallegrava e calcolava ad alta voce quanto tempo potevan durare quelle provviste, Jorgj ricadeva, nella sua solita irritazione.

— È un’elemosina, ti dico! Chi, chi l’ha mandata?

— Se non lo sapete voi chi lo sa?

— Io non so nulla. Io respingo tutto....

— A chi? Se lo mangia il postino; sentite, zio Jò, è meglio che ve lo mangiate voi. Sarà quella dama di Roma, quella.... sapete, di cui avete parlato l’altro giorno!

Il ragazzo parlava tra il serio e il faceto, mentre gli occhi di Jorjgj fissavano di nuovo le violette e la commozione del primo momento lo riprendeva. Chi gli mandava il dono? Una donna senza dubbio. Ricordi vaporosi come le nuvolette che continuavano a correre sullo sfondo della porta gli passarono in mente; gli pareva di trovarsi ancora a Nuoro, in una sera fantastica, fra le luci colorate e i rumori della festa. Torme di donne scendevano con passo ritmico, quasi seguendo il motivo della marcia suonata