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Pagina:Deledda - Colombi e sparvieri, Milano, 1912.djvu/196

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— Ebbene, che m’importa? — gridò a un tratto Columba, balzando in piedi pallida d’ira contro sè stessa che non sapeva frenare la sua stupida curiosità. — Bè, — aggiunse riaprendo la porta, — adesso vattene, chiacchierone. Perchè sei venuto dentro? Vattene, e non parlare, perchè se no ti scortico la nuca con le unghie....

Nonostante questa minaccia Pretu indugiò ad alzarsi; si levò la lunga berretta e vi gettò dentro l’arancia, indi sollevò verso Columba i begli occhi maliziosi.

— Datemene un’altra, dunque; la porterò al mio fratellino Bore che se la succhierà come una tetta....

Ma Columba incalzava:

— Vattene, vattene, — ed egli si alzò a malincuore e se ne andò.

Ella chiuse la porta e si rimise a sedere al posto di prima. Le faceva male il cuore, il respiro le mancava; le pareva di esser sola in mezzo al mondo e che qualcuno avesse vuotato intorno a lei tutte le cose, come il servo aveva vuotato le sue bisacce. Le tancas, le vacche, gli alveari, le case, tutto era senza valore; tutto le appariva inutile poichè il disgraziato Jorgj piangeva e rideva leggendo le lettere di un’altra donna. E la passione che la urgeva le sembrava fosse ancora il dispetto, l’odio contro l’uomo da cui si riteneva offesa e abbandonata; ma già una voce misteriosa echeggiava in fondo alla sua coscienza, una voce selvaggia e tenera come quella degli ubbriachi che cantavano in quella sera d’amore, ed ella si accorgeva d’esser vissuta fino a quel momento come uno che ha smarrito la strada e si ostina ad andare avanti senza chiedere indicazioni a nessuno e più va innanzi più si smarrisce.