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Pagina:Deledda - Cosima, Milano, Treves, 1937.djvu/107

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cosima 77


scaglie, e ai lecci millenarî che sembravano più antichi delle stesse rocce. L’ombra era fitta, e se qualche nuvoletta solcava il cielo sembrava si afferrasse alle cime più alte, in certi piccoli squarci del bosco, come i fanciulli che guardano in fondo a un pozzo. Ma il banchetto fu servito in una radura, per terra s’intende, tutta circondata da un colonnato di tronchi come un salone regale: per Cosima Andrea preparò con una sella e una bisaccia una comoda poltrona; e i migliori bocconi furono per lei: per lei il rognone dell’agnello, tenero e dolce come una sorba matura; per lei il cocuzzolo del formaggello arrostito allo spiedo, per lei il più bel grappolo d’uva primaticcia portata appositamente dal fratello premuroso.

Si accorsero, i convitati, di queste gentilezze quasi galanti, e cominciarono a urtarsi coi gomiti; e come se una parola d’ordine si trasmettesse fra loro con questo gesto, un bel momento tutti sporsero verso Cosima le loro curiose forchette di stecchi di legno, e ad esse infilati pezzetti di carne, di pane, di cacio, di tutte le vivande che si trovavano sulla mensa. Ella arrossì, ma non pronunziò una parola: non aveva mai aperto bocca, del resto, durante tutto il tempo del banchetto, e pareva una estranea, sulla sua sella ricoperta dal drappo arcaico della bisaccia, coi suoi grandi occhi silenziosi, oscuri del cupo verde dell’ombra del bosco: come una delle piccole fate ambigue, non sai