Pagina:Deledda - Cosima, Milano, Treves, 1937.djvu/135

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tì quasi pietà di lui, decisa a nascondersi per non aumentargli il malumore che doveva provare. Eppure la sola idea che egli era lì, nell’umile portico dove le sorelle gli servivano il caffè, illuminava ancora di più, se era possibile, il paesaggio intorno: e le felci toccate da lui scintillavano come palme dorate, e il cielo era più vasto e azzurro.

Incantesimi della fanciullezza, che nel ricordo dànno un’idea di quello che debba essere un giorno, per l’anima che ci crede e lo aspetta in ricompensa degli innumerevoli disinganni della vita, il regno di Dio sulla terra.


Adesso Cosima è di nuovo nella sua casa melanconica, dove ogni cosa, dopo il ritorno dalla montagna, ha preso un aspetto più triste, quasi di decadenza, o meglio di appassimento, un colore umido di autunno, un odore funebre di crisantemi. Ella ha freddo, nell’alta stanza dalla cui finestra si vede il Monte, già anch’esso coperto di nebbia: il grido dei corvi annunzia l’inverno. Ma ancora ci sono, per lei, momenti nei quali il cielo torna a spalancarsi, e un tepore primaverile le scalda il sangue. Ella scrive: piegata sul suo scartafaccio, quando le sorelle tengono a bada la madre, e Andrea è fuori in campagna, e Santus dorme uno dei suoi soliti terribili sonni, ella si slancia nel mondo delle sue fantasie, e scrive, scrive, per un bisogno fisico, come altre adolescenti corrono per i viali dei