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Pagina:Deledda - Cosima, Milano, Treves, 1937.djvu/191

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cosima 147


strare ripugnanza per quel lungo corpo ricoperto di stracci maleodoranti come quello di un mendicante, coi grossi piedi scalzi terrosi e tutti tagliuzzati per cicatrici di sterpi e spine, che pareva avessero camminato attraverso interminabili lande per arrivare a quel piccolo rifugio ospitale. Egli stava ad occhi chiusi; ma d’improvviso li aprì, un po’ febbrili e lucidi, e la guardò come un cane malato. Uno sguardo, solo, ma Cosima vide un misterioso balenìo in fondo alle pupille che non erano quelle del duro e freddo Elia, ma di un uomo disperato, che aveva paura di morire solo, abbandonato, come un vecchio cane. Gli si avvicinò e disse:

— Come vi sentite? Faremo venire il dottore, o vi porteremo a casa.

Egli accennò di no, di no: per quanto solo e malato, non voleva il dottore e non voleva muoversi dalla sua tana: ma l’occhio gli si era rischiarato, pieno di una dolcezza, quasi di un sorriso infantile.

— Andate, andate pure, — disse. — Vadano pure a casa, signorina, lei e la signora padrona: bisogna pigiare l’uva e metterla nel tino.

— Eh, non la pigiamo noi, coi nostri piedi, — disse Cosima, tentando di scherzare. — C’è poi Andrea, che ci bada: non pensateci. E poi il tempo si cambia: minaccia di piovere. Non vogliamo lasciarti così, zio Elia.

Ella lo chiamava così, come si usava con tutti