Pagina:Deledda - Cosima, Milano, Treves, 1937.djvu/221

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cosima 171


carla come un cane che ha ritrovato il padrone, la lasciò sola nell’appartamento ov’ella abitava col paziente marito che era impiegato in un’azienda privata. Aveva destinato a Cosima la camera più bella, col balcone, quella appunto donde si vedeva il mare: e le lasciava libero anche il salotto, pieno di fiori di carta, di vasi incrinati, di tovagliette, di oggetti di cattivo gusto.

— Qui potrai ricevere i tuoi amici, i tuoi ammiratori.

Ma Cosima non aveva amici, e si atterriva al solo pensiero di averne uno solo. Di ammiratori, poi, non ne voleva: le pareva di esser già, per lunga esperienza, scottata da loro. Eppure d’un tratto sentì suonare alla porta dell’ingresso, e senza pensarci su tanto aprì. Era il garzone di un fioraio, che portava un grande mazzo di rose rosse, avvolte nella carta velina. Per lei? Proprio per lei: ma non si sapeva da parte di chi. Ella stette a guardarle quasi con la sorpresa paurosa con cui aveva guardato nel pugno di Elia le monete d’oro: e il profumo quasi violento delle rose, e il loro colore, le parvero vivi, caldi, sanguinanti: più che dal coro delle fanciulle e dal ronzio delle musiche della strada, sentì da quell’alito quasi carnale venirle incontro la vita: ma quando si decise a prendere il mazzo dalle mani del garzone che la guardava con occhi maliziosi, si sentì pungere da una spina acuminata: e pensò che la vita anche sotto l’illusione