Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/110

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Bisogna dire che queste strade e questa città erano coperte di neve: una neve da burla, per Michele secondo, abituato alle nevicate alte del suo paese; ma qui tale da stordire con una specie di gelida ubbriachezza tutti quelli che s’incontravano per le strade. I ragazzi pattinavano urlando, le ragazze che andavano a far la spesa camminavano come su un fiume gelato; uomini imbacuccati e impellicciati correvano quasi spinti da un pericolo, e i ragazzi che non avevano la fortuna dei pattini improvvisati si esercitavano in una inesorabile battaglia di palle di neve. Una ne arrivò e scintillò sulla capoccia selvatica di Michele, mentre egli domandava per la ventesima volta notizie dell’officina. Nessuno sapeva dov’era.

Così arrivò a uno spiazzo, in un quartiere nuovo ancora in costruzione. C’era un piccolo mercato, con cesti di verdura appassita dal gelo, pesci che sembravano di vetro e mucchi di arance che, queste almeno, facevano concorrenza ai braceri accesi dalle erbivendole. Brillava anche qualche fuoco, allegro, nel chiarore quasi lunare della bianca giornata, come i fuochi della notte di Sant’Antonio nella piazzetta davanti alla casa di Michele. Ed egli ci si fermò davanti, incantato e infreddolito, sembrandogli di esser capitato in un paese un po’ più grande del suo, ma sempre paese. E fu lì che una donna tutta ardente di geloni, maternamente impietosita per il naso rosso e gli occhi desolati di lui, s’interessò finalmente alla sue domande. La strada, sì, ella l’aveva sentita nominare: doveva essere una strada nuova, non molto giù di

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