Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/197

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La località prendeva nome da questo pino solitario, superstite forse di antichissime foreste che neppure la tradizione ricordava: tanto più straordinario, oltre che per la sua grande altezza e il volume dei suoi rami potenti, per la sua quasi miracolosa vita in quell’estensione di pianure onduleggianti quasi selvagge ed aride, prive di ogni altra vegetazione. Vi allignavano solo i fichi, bassi, tozzi, grossi, con certi tronchi e rami biancastri che parevano membra di giganti storpi ripiegati sulla loro sconfitta: e anche la vite, che un volonteroso agricoltore aveva tentato di piantare su certe distese volte ad oriente verso le lontananze dei monti, ma che dava un vinetto chiaro, aspro, stentato. Eppure venne un uomo d’oltre mare, e credo fosse un coatto, condannato per non so quale colpa che doveva essere involontaria, perchè bastava guardarlo negli occhi celesti attoniti in un viso pallido e liscio come quello di una donna, per aver fiducia in lui. Ed in lui ebbe piena fiducia il buon agricoltore che aveva coraggiosamente piantato la vigna nella desolata landa, appena l’uomo si presentò per chiedere lavoro.


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