Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/214

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conto suo. Era vero: la cucina, tutta in disordine, puzzava d’aglio soffritto, di caffè, di lisciva: nella grande sala da pranzo, con le persiane socchiuse inghirlandate di roselline rampicanti, tutto invece era lucido e quieto: sulle tavole coperte di doppie tovaglie damascate i vasetti di metallo con gerani freschi parevano candelabri accesi, mentre sulla mensola di mezzo della grande credenza una fila arcuata di bottiglie e bottigliette di liquori dava, per i suoi colori trasparenti, l’idea dell’arcobaleno.

Tutte queste cose, però, interessavano solo fino a un certo punto il bruno Remo, e il rosso Romoletto che lo seguiva silenzioso e guardingo, trattenendo il respiro. Quello che a loro premeva era la vetrata della sala, socchiusa sulla bella veranda che dava sul giardino: la spinsero, quasi senza toccarla, vi sporsero la testa. Pareva un sogno: veranda e giardino deserti: e in fondo al viale d’ingresso, fra due file di ortensie di seta lilla, il cancello rosso socchiuso. Non pareva: era proprio un sogno. Di volo Romoletto sorpassò il fratellino un po’ incerto e fu nella strada bianca e nera di polvere e d’ombre d’alberi: d’impeto Remo lo seguì come un cagnolino ansante e quasi senza accorgersene furono nel vicino bosco: bosco umidiccio e verdone, di secolari castagni, di cui ogni esemplare aveva una famiglia di tronchi mostruosi: nonni, genitori, rampolli, tutti cariati, con buche entro le quali i monelli avevano cacciato pietre, carta sudicia, stracci e varie altre cose. Eppure erano questi ripostigli, più che gli sfondi azzurri del bosco e le vette dei castagni, alcuni dei quali

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