Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/23

Da Wikisource.


Per la millesima volta, forse, in vita sua, l’uomo seduto fra i cespugli della duna trasse il portafogli di pelle chiara, gonfio e caldo, che gli dava l’impressione di un suo stesso membro, e ne tolse un foglietto piegato in quattro: avrebbe potuto non leggerlo, tanto lo sapeva a memoria e le parole, anzi, gli si erano impresse nella carne, vive anch’esse e parte di se stesso; ma no; lo spiegò con cautela, poiché la carta minacciava di aprirsi e quasi di volatizzarsi; rilesse le diaboliche righe: «Figlio d’ignoti, sguattero di bordo sempre in salamoia, Rosa Bini non è pane per i tuoi denti».

C’era la luna, alta sul mare così calmo che sembrava di alabastro; il suo chiarore permetteva all’uomo non solo di rileggere il foglietto, ma di distinguere, entro il portafogli, i biglietti di banca del quale era zeppo: quelli grossi in un reparto, quelli più modesti in un altro: i cartoncini da visita, le piccole fotografie; e il quadrifoglio-fantasma che, dentro un astuccio di carta velina, riserbava tutto per sé un ripostiglio centrale fermato da un gancio a molla.

Anche le cose, intorno a lui, fino alle lontananze dell’orizzonte, gli apparivano nitide e chiare, come sotto un sole bianco; ecco laggiù


— 13