Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/235

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veder meglio alle ragazze, verso le quali qualche bellimbusto spregiudicato ammiccava come per dire: questo fa proprio per voi.

Egli lasciava fare: era un cuore semplice, un cuore d’oro; la sua piccola testa rossiccia, con i grandi occhi di cervo, spauriti e buoni, dava uno strano senso di dolcezza a guardarla, come appunto quella di una bestia mansueta e mite, sebbene selvatica, capitata fra gli uomini, che non tentavano di farle male, anzi le tributavano un rispetto interessato, una protezione mista di speranze e di idolatria.

Poichè tutti, anche gli spregiudicati, credevano nella sua virtù: e il primo a crederci era lui stesso, il generoso gobbino, e in piena buona fede, sebbene la sua misteriosa potenza a spandere la luce del bene intorno agli altri nulla valesse per lui, giovane, ricco, di buona famiglia, condannato a vivere senz’amore e senza illusioni. Senza illusioni? Forse no: poichè, se egli era venuto al ballo, se guardava timido le donne, se si era vestito bene, con le scarpe di coppale e in mano i guanti bianchi, se aveva una perla alla spilla della cravatta, qualche velleità ce la doveva pure avere: e se, soprattutto, quando la fisarmonica intonò, come in onore di un Dio silvano, una musica nostalgica, fatta di echi, di lamenti, di richiami insistenti e appassionati, richiami di amanti che si cercano ansiosi nella foresta, anche lui si unì al circolo magico dei danzatori, scegliendo il posto fra due fanciulle che per la loro statura non lo facessero troppo sfigurare.

Una ero io; sì, e confesso che sollevai con


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