Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/51

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Allora, in un fresco turchino giorno del primo inverno, arrivavano due valentuomini: uno, smilzo e nero, con un berretto frigio sulla testa rapata e le maniche della camicia rimboccate sulle braccia pelose: sembrava un boia; l’altro un pacioccone roseo e lucido: erano due celebri macellai. Il maiale viene, con grandi sforzi dei due bravi, tratto fuori dalla sua reggia. Dove lo conducono? Esso protesta, poichè non vorrebbe ritornare neppure nei boschi natii, dove sulle rosee famiglie dei ciclamini cadono i confetti delle ghiande: ma è verso un luogo ancora più bello delle radure fiorite d’asfodelo dell’Orthobene che l’infelice deve andare: verso i prati che i poeti d’ogni tempo hanno garantito per i più ameni del mondo, ai confini della terra. Verso la morte.


Il pacioccone è il più feroce. Tira fuori la lesina, col manico di corno inciso, lunga e acuminata come lo stiletto di un sultano geloso: il porco, rovesciato in terra, impotente a muoversi, sente il pericolo e urla; ma l’uomo gli affonda il ferro nel punto preciso del cuore, e non una stilla di sangue accompagna l’agonia della vittima. Poi arde il rogo, in mezzo al cortile, e i due uomini vi dondolano su, come in un giuoco di giganti, l’animale morto; arde il suo pelame irto ancora di dolore, e il fumo appesta i dintorni, richiamando sulla cresta del muro del cortile le faccette diaboliche di tutti i monelli della contrada. Una scena quasi dantesca si svolge adesso intorno alla vittima, che viene rapidamente raschiata del pelame abbrustolito, poi


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