Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/60

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come un’ape; le preme il seno con la manina fredda, guarda di sotto in su con gli occhi velati. E se si stacca un momento sorride: è un sorriso perfettamente inconscio, un movimento dei muscoli; la madre però s’illude, credendolo un vero sorriso, magari interessato, ma ad ogni modo rivolto a lei; e se ne illumina tutta, e, a sua volta riconoscente, presa da una vaga ebbrezza, parla alla creatura, con un linguaggio adatto, tutto diminutivi, gorgheggiamenti, balbettii: un gergo da uccelli, quando portano il pasto ai nati del nido. Eppure non è del tutto innocente, quel chiacchierio; anzi a volte si fa amaro e dispettoso, e confida alla bambina i presunti torti del padre. Di tutto il disordine intorno, di tutte le cose che andavano male, il colpevole, al solito, era lui; si era intromesso anche nel modo di disporre i mobili nella camera loro da letto, collocando il cassettone in piena luce, mentre lei lo avrebbe voluto nell’angolo in penombra. Almeno del cassettone e dei suoi ripostigli avrebbe dovuto essere padrona lei: no, egli la trattava come una bambina, pretendeva che non avesse le sue robe nascoste, i suoi segreti. E invece, come tutte le donne anche più vecchie di lei, ella aveva i suoi ricordi, i suoi cimeli: il suo passato era quasi di ieri; come potersene disfare tutto in una volta? D’ieri la sua fanciullezza, i giorni di povertà arricchiti però dalle illusioni d’amore; d’ieri il romanzo stroncato dalla necessità familiare di un matrimonio di convenienza: come non lamentarsene, almeno con la figlia? Fuori, i gemelli non davano segno di vita; d’improvviso però uno di essi strillò, anzi invocò

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