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156 grazia deledda

secca. Un giorno dovette star digiuna perchè l’acqua arrivava proprio fino ai tronchi del rifugio, ed era pericoloso muoversi di lassù.

L’acqua saliva, saliva, grigiastra, cupa, silenziosa. Il cielo, la terra e l’aria, parevano oramai composti solo d’acqua fredda e sporca.

Ma la sera dell’ottavo giorno la pioggia cessò, e tutto ad un tratto le nuvole s’aprirono. Qua e là, fra la nebbia cinerea, apparve un cielo verdastro, e in una spaccatura di nuvola brillò, come nella profondità di una miniera, l’argento dorato della luna.

L’acqua calò, parve ritirarsi, stanca di conquista, trascinandosi dietro un bottino di fronde, di rami, di sabbia, di animaletti morti.

L’indomani il sole illuminò il luogo desolato, e la lepre, bagnata e affamata, uscì dal suo nascondiglio, e potè riscaldarsi e guardarsi intorno.

Lo stagno era scomparso: un fiume lento e fangoso passava sotto la riva alta che aveva resistito come un argine: e l’acqua continuava a trasportare le sue vittime e il suo bottino.

Ed ecco che fra i rami nudi e le foglie secche e fra mille bollicine che parevano le perle d’una collana rotta, la lepre vide i due leprotti morti, lunghi stecchiti, con gli occhi spalancati e le orecchie dritte: essi correvano correvano, sull’acqua, sempre l’uno accanto all’altro, da buoni fratellini che anche dopo morti si volevano bene.

Oramai la vecchia lepre era proprio sola nell’isola.