Pagina:Deledda - Il nostro padrone, Milano, Treves, 1920.djvu/26

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chio dei due; le sue mani rossastre parevano tinte di mosto ed esalavano un odore non sgradevole di acquavite all’anice.

Egli fece sedere il Dejana accanto al fuoco, gli battè una mano sulla spalla e si curvò ad esaminargli il piede slogato.

— Adesso viene mia nipote; la manderò subito a chiamare la maestra Saju.... Tu la conosci? — domandò al capo-macchia. — Quella è brava ad accomodar le ossa!

Il forestiere accennò di sì; conosceva quasi tutti, a Nuoro.

Intanto il Dejana raccontava le sue disgrazie di viaggio, la vana ricerca del fantastico cavallino, lo slogamento del piede, i modi da turco del vetturino, l’ajuto insperato del signor Bruno Papi, signor Bruno, vero?

— Bruno, solo Bruno, — rispose il capo macchia, respingendo il bicchierino di acquavite che Antoni Maria gli offriva.

— Tu devi bere, com’è vero Cristo. Altrimenti mi offendo!

— Mi dispiace, non posso. Sono astemio.

— Che uomo sei tu, allora? Scommetto che ti piace il caffè come alle donne.

— Mi piace, sì!

— Non ne ho! Se tu però ritorni, più tardi, faremo i maccheroni. Quelli almeno ti piacciono!