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di fantasticare, e, perché non dirlo?, di far nulla.
D’altra parte la zia, presso la quale ero tornato ad abitare, non m’incitava al lavoro: mi considerava ancora come un bambino infelice, forse anche un po’ idiota, che si ha l’obbligo di mantenere e di proteggere.
Era una donna un po’ strana anche lei, d’altronde. Non usciva mai di casa se non per fare qualche spesa e non riceveva nessuno: ma possedeva un numero infinito di piccioni, di gatti, di conigli e di pulcini, e chiacchierava continuamente con loro, sottovoce, tenendone sempre qualcuno in grembo o sulla spalla.
E aveva sempre da fare, dalla mattina alla sera. La casa era sua, e si viveva, almeno io credevo, con l’affitto del piano superiore: noi si abitava al piano terreno: un alloggio melanconico, dove all’inverno non batteva mai il sole; e triste anche d’estate perché alle cinque del pomeriggio pareva già di essere al tramonto; si usciva e ci si trovava storditi nel pieno splendore del sole estivo.
Poiché l’ingresso era riserbato agli inquilini del piano superiore, noi si entrava dal salotto, la cui porta a vetri, chiusa da una persiana, dava sulla strada.