Pagina:Deledda - Il ritorno del figlio - La bambina rubata, Milano, Treves. 1919.djvu/99

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Una cosa sola mi aiutava a vivere, fra tanta desolata solitudine: il sonno.

Dormivo a lungo: e mi abbandonavo al sonno come ad un vizio, non perché mi portasse l’oblìo, ma perché mi gettava in una esistenza fantastica che si univa in qualche modo alla mia avventura. Nell’addormentarmi mi pareva di essere ancora davanti ai portoni chiusi della casa colonica: li toccavo uno dopo l’altro, poi andavo a mettermi sotto la finestra di Fiora. Inciampavo e mi svegliavo di soprassalto.

Ma poi mi riaddormentavo e sognavo. Invariabilmente, i sogni mescolavano la mia vita nell’Istituto con la mia avventura. Mi ritrovavo nel giardino della villa coi compagni: andavo in cerca dell’istitutore e lo trovavo con Fiora: ma questa mi sorrideva, di sopra la spalla di lui, e bastava tanto per farmi svegliare tutto in sudore e singhiozzante.

Quell’angoscia notturna era la mia salvezza; poiché mi costringeva a piangere e nel pianto si scioglieva il mio dolore