Pagina:Deledda - Il sigillo d'amore, 1926.djvu/159

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Piccolina 153


L’aspirina parve fargli bene: all’ora solita mi servì la seconda colazione, poi riordinò la cucina e mi chiese il permesso di mettersi un po’ a letto. Più tardi mi si ripresentò tutto vestito per uscire, ma col viso rosso per la febbre e gli occhi lucenti.

— Ascolti, — disse, umile e fermo, — io vado fuori a farmi visitare qui nella clinica accanto. Ho un dolore al fianco; è certo un reuma: è meglio, però, assicurarsi. Non s’impensierisca se tardo: se mi permette telefonerò dalla clinica: intanto per questa sera c’è tutto pronto. Le manderò poi su la Lauretta che si incaricherà di portar via la cornacchia.

Io cerco invano di oppormi: lo afferro anche per il braccio e lo supplico di restare. Farò venire il medico, farò venire un infermiere; lo curerò io. Invano. Egli andava verso la porta come uno che è aspettato in qualche posto e deve assolutamente non mancare: la sua sola preoccupazione era di assicurarmi l’intervento di Lauretta, la figlia del portiere, che spesso ci rendeva servizio. E se ne andò quasi ruvidamente, senza guardarmi, senza salutarmi.