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Il figlio del toro 231

Dopo il tramonto pallido scendeva una sera fresca e scura: in quel mistero, nel cerchio di funebre chiarore che usciva dalla cappella, col grande animale che ogni tanto si sollevava per muggire come invocando aiuto e poi ricadeva contorcendosi, il bifolco credeva di aver la febbre o di essere sotto l’opera di un cattivo incantesimo. Guardava di qua, guardava di là, verso gli sfondi della strada, e gli occhi nebbiosi dell’orizzonte gli sembravano quelli del toro morente.

— San Cristoforo caro — disse infine, parlando verso il tabernacolo con accento di rancore — da voi questo non l’aspettavo.

Subito brillò un lume volante, ed un grande ventaglio di splendore violetto parve sollevare di terra l’uomo e il toro. Anche l’interno della cappella rifulse fantastico come quello di una grotta marina.

Era l’automobile del veterinario.

— Questa bestia è stata avvelenata — disse l’uomo della scienza, appena ebbe guardato la bava del toro.

— Da chi? E perchè? — domandò il bifolco.

Ma il veterinario non era uomo di parole: tutt’al più rivolgeva qualche improperio alle bestie riottose che rifiutavano il medicamento. Questa però si mostrava docile: trangugiò la miscela che le fu versata per le fauci aperte,