Pagina:Deledda - Il sigillo d'amore, 1926.djvu/289

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Strade sbagliate 283


— Lasci l’eredità, signora. Neppure i polli credono più, adesso, a queste famose leggi. E lasciamo in pace i morti. Mi parli di lei, e solo di lei.

— Di me? Ah, sì, di me. Da bambina, dunque, anch’io sentivo la melanconia d’esilio che tormentava mio padre, e le esaltazioni di lui dopo che aveva bevuto. Allora egli parlava del mondo lontano, delle città grandi, come di un paradiso conquistabile. Mia madre, ch’era del paese, scrollava la testa, e si rattristava. Ma era una debole anche lei: non sapeva opporsi alle sregolatezze del babbo e non sapeva sottrarmi all’influenza di lui. Così io facevo una vita quasi animalesca, sempre fra i dirupi, a guardare le lontananze ed a cantare, a cantare; ma un canto esasperato che era come il richiamo a cose impossibili. Sognavo niente meno di sposare un principe, venire nella grande città, ed essere sempre in festa, fra musiche, canti, danze, colori. Ma io l’annoio, dottore, io parlo male; ho la testa vuota e non so quello che dico. Io sono malata, molto malata, e lei deve compatirmi. E questo santo uomo di mio marito, Albino, le dirà....

— Continui lei, signora, prego. Lei parla benissimo. Continui.

— Ah, dunque, non ricordo più. Ho la testa come la volta di una cattedrale, grande, grande; e le parole vi rimbombano come il