Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/128

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di terrore: di nuovo mi sento vile, a non reagire, a non aver la forza di gridare: basta, — e poi fuggire piangendo.

Disperato tesi anch’io la mano verso il calice dell’assenzio, verde mischiato di sangue per il riflesso del cristallo, e lo trangugiai.


Dopo, siamo andati a fumare, accanto al fuoco: la pendola bianca e dorata, silenziosa eppure palpitante come la luna nel pozzo, segnava le nove: e Antioco doveva partire alle dieci.

— Ha già pronto tutto? — gli domando, quasi inquieto per lui, che ha di nuovo, sul viso grigio, quelle pieghe amare di uno che ha bevuto l’assenzio, quello dei selvaggi e dei bassi fondi cittadini. Adesso fuma: le sigarette non bastano a velare, col loro vapore profumato, il corruccio che lo esaspera.

Piegando indietro la testa, e accavallando le gambe, con gesti che ricordano quelli delle donne, dice:

— Tutto pronto; poiché tutto va con me. Odio bauli e valigie: dove mi trovo mi vesto e mi spoglio, come i vagabondi.

— E qui, chi resta?

— Se Dio vuole, quella fantasima tormentata della mia serva.